Secondo la definizione di Wikipedia, la cancel culture è “una forma moderna di ostracismo nella quale qualcuno verrebbe estromesso da cerchie sociali o professionali – sia online sui social media, che nel mondo reale, o in entrambi.“
Per essere meno didascalici e più concreti, la cancel culture viene definita persino “nazismo” da Enrico Mentana, intesa come dittatura del perbenismo.
Negli USA la questione è più sentita in quanto vero e proprio meltin pot culturale – una zuppa spesso venuta su con contrasti mai sopiti – e il dibattito ha spesso conseguenze molto reali come la perdita del posto di lavoro di celebrities (si pensi all’attrice Gina Carano licenziata dallo show Disney “The Mandalorian” a causa dei suoi tweet in aria alt-right) o di singoli cittadini che per un commento sui social considerato di troppo dal sentiment del momento si vedono messi alla porta.
Il tutto in una girandola di ipocrisia che forse in posti più provinciali del Primo Mondo, come il Belpaese, esplode al massimo del proprio fragore: si pensino alle battaglie – in teoria giuste – sulla maggiore inclusività della lingua quando a Dicembre 2020 , la perdita dei posti di lavoro che al 99% ha riguardato le donne, non ha generato che un silenzio assordante da parte dei paladini del bel pensiero.
Il significato della cancel culture oggi
La cancel culture, il politicamente corretto da una parte, la rivendicazione di far ironia sulle fasce più fragili della società dall’altra; rischiano di creare una nuova cortina di ferro – culturale e sociale – in un mondo sempre più frazionato.
Nemmeno il vecchio paradosso della tolleranza Popperiana, secondo il quale bisognerebbe essere intolleranti solo contro gli intolleranti stessi per salvaguardare la società civile, rischia di bastare e anzi può diventare un’arma a doppio taglio.
Cos’è davvero la tolleranza, oggi? Si può essere considerati intolleranti se si usa un aggettivo maschile (es. “ministro”) per definire la medesima carica politica occupata da una donna o la pretesa di usare forzatamente il termine “ministra” lo è? Le quote sul lavoro, per le cariche pubbliche, destinate a minoranze della società sono ghettizzazioni o giusti strumenti utili per favorire l’ingresso delle stesse in posti altrimenti preclusi?
La soluzione dell’individualismo positivo
A stretto giudizio personale ritengo che una delle poche scappatoie a questi dilemmi di una società complessa e fragile sia un sano e positivo individualismo. Per quanto sempre più vituperato e visto come un fenomeno isolante, in realtà toccherebbe recuperare quella che ne è la sua accezione filosofica ovvero il porre l’accento sul “valore morale dell’individuo”.
Insomma, è il singolo (o la singola) a determinare il suo valore nella società moderna che altro non è che una somma degli stessi, senza spogliarli della propria individualità.
Per dirla più terra-terra: non mi importa chi tu sia, da dove provenga, quali siano le tue inclinazioni. Non è determinante per misurare il tuo valore, se non l’impegno e la volontà ad accrescere la propria posizione al fine di essere felice.
Questo al tempo stesso ci rende tutti eguali e interscambiabili: posso portare i capelli con le trecce senza essere accusato di appropriazione culturale o fare dell’ironia come ad esempio l’unico show a oggi che si permette di prendere pesantemente in giro tutto e tutti, lo storico cartone South Park, un festoso delirio libertario che infatti prosegue da 23 stagioni senza nessun minimo accenno di stop.
Probabilmente si tratta di una soluzione difficilmente applicabile, soprattutto nei paesi di cultura più collettivista, ma a oggi sembra una delle poche ancore a cui appigliarsi per non soccombere nel marasma sociale.
Cover photo: Reimund Bertrams, Pixabay