L’influencer è uno di quei nuovi lavori – anche se molti continuano a non definirlo tale – che sono nati con la new economy del digitale. In realtà, a mio avviso, nella sua declinazione attuale altro non è che l’evoluzione (o il rebranding) del trendsetter ovvero chi, specie nell’ambito del fashion, “dettava” una nuova linea da seguire al mercato e quindi ai suoi consumatori. Diversa è la figura del testimonial, un personaggio già famoso che si presta alla marchetta pubblicitaria.
Nell’alveo del sogno anarco-capitalista realizzatosi con il digitale, l’influencer oggi è un personaggio che di mestiere influenza, per l’appunto, il suo seguito di pubblico per piccolo o grande che sia. Ovvio che più è grande il numero di follower, più si stima che l’influencer abbia un peso specifico per le aziende di prodotti che si trovano nello stesso segmento di mercato di cui questa figura si pone in modo trasversale come voce di riferimento, user content generator capace di ribaltare anche le convenzioni editoriali.
Insomma, l’influencer per quanto tirato in ballo in modo sarcastico nel pezzo di reitaniana memoria “Una vita in vacanza” dello Stato Sociale, è quello che tutti vorremmo fare, per poter dire”io diventerò qualcuno” come canta Caparezza.
In un singolo articolo come questo è ben difficile riuscire a trasferire le competenze necessarie per diventare influenti in un dato settore, anche per un paradosso piuttosto evidente: spesso, chi insegna a diventare influencer – NON lo è a sua volta – oppure lo è unicamente nel campo della formazione creando una sorta di loop generato dalla mancanza di un fattore che ritengo fondamentale: la conoscenza della propria “cerchia” intesa non solo come ambito di riferimento (fashion, food, tech che sia) ma anche di come pensa il proprio pubblico.
Senza scendere in analisi tecniche approfondite, basta guardare il profilo dell’esempio per eccellenza: Chiara Ferragni. Nonostante sia partita con un taglio ben specifico dedicato alla moda, ha spostato l’attenzione sulla sua figura, portando alle estreme conseguenze l’idea che sui social siamo tutti dei media, riuscendo anche giocare con le polemiche suscitate dal suo ruolo.
Il canale di riferimento dell’imprenditrice (perché di questo stiamo parlando, una splendida imprenditrice di sé stessa) è ormai Instagram, vuoi per l’immediatezza dello stesso canale, vuoi perché per le sue caratteristiche è il migliore per chi vuole fare dell’ego il proprio business. E attenzione, non parlo del suo ma di coloro i quali la seguono, per emulazione sociale o per invidia.
Le metriche di successo sono puramente quantitative e quindi, come in American Gods di Neil Gaiman, conta unicamente se la divinità viene considerata. È solo nell’oblio che essa perde di forza. Così come i nuovi dei pagani di quest’epoca social: gli influencer, per l’appunto.
Diventare influencer vendendosi “al diavolo”
Continuando con la metafora teologica, il fenomeno-influencer è forse la summa maxima dello spirito dei nostri tempi: e per arrivare al vertice – o avere l’illusione di farlo – molti sono disposti anche a vendere la propri anima social (i propri profili) “al diavolo”: sono presenti infatti un sacco di servizi (SEOclerks, Smonutz, fra i più usati) in grado di accrescere il numero di follower su Instagram e sugli altri social in modo del tutto artificiale.
Considerando per l’appunto una capacità tecnica di base molto bassa da parte delle agency (ci sono molti esempi di influencer finte passate per vere), l’importante è che il numero di seguaci sia semplicemente alto, no?
Ma diventare influencer non è affatto semplice
In realtà, senza un Calendario di contenuti (fossero anche slice of life: momenti di vita) senza una Costanza nella pubblicazione (meno si ci si espone, meno si vive) senza una Competenza (in un’area specifica) è davvero difficile poter aspirare a essere influencer.
In effetti, per quanto la componente egocentrica giochi un suo ruolo, si tratta davvero di un lavoro.
Cover photo by EVG photos on Pexels
In text photo by Josh Sobel on Unsplash