The Bass Museum di Miami Beach si conferma come punto di riferimento imprescindibile per l’arte contemporanea internazionale, pronto a celebrare un nuovo capitolo in occasione della Miami Art Week 2025. Fondato nel 1964 grazie alla generosa donazione della raccolta privata di John e Johanna Bass, il museo, ospitato in un elegante edificio Art Déco ampliato dagli architetti Arata Isozaki e David Gauld, unisce storia, architettura e sperimentazione.
Anche quest’anno, il programma espositivo esplora le frontiere dell’arte contemporanea, offrendo mostre d’impatto e installazioni immersive con un forte respiro internazionale. Il Bass non è solo vetrina di grandi artisti, ma un crocevia di dialoghi culturali, esperienze multisensoriali e iniziative pensate per un pubblico ampio e diversificato.
Le mostre
Isaac Julien: Vagabondia
Vagabondia, l’installazione filmica a doppio schermo recentemente entrata nella collezione del The Bass, si trasforma in un viaggio sensoriale che intreccia memoria, assenze e potere, offrendo una lettura vibrante e critica del modo in cui i musei raccontano la storia. Ambientata nel suggestivo Sir John Soane’s Museum di Londra, la pellicola segue una conservatrice mentre attraversa sale colme di oggetti dell’epoca imperiale britannica, ma presto la sua routine si incrina: figure spettrali irrompono nella quiete del museo, mettendo in luce ciò che è stato escluso dai racconti ufficiali. Tra esse spicca un enigmatico “vagabondo” settecentesco, più vivo che fantasma, che con gesti teatrali sfida l’ordine delle collezioni e svela le tensioni tra estetica, potere e memoria coloniale. La coreografia di Javier De Frutos amplifica questa frattura, trasformando le sale in un palcoscenico in cui passato e presente si sovrappongono, mentre la camera di Julien scivola con eleganza tra realtà e immaginazione.

Isaac Julien, Vagabondia, 2000. Installation view, Turner Prize, Tate Britain, 2001. Artwork ©Isaac Julien. Photo: ©Tate. Courtesy of the artist and Victoria Miro.
A dare ulteriore profondità al racconto è la narrazione in creolo, lingua simbolo del métissage culturale, che risuona nei corridoi neoclassici del museo come un atto di re-esistenza, restituendo voce a storie troppo a lungo marginalizzate. Julien non offre risposte, ma apre interrogativi: chi decide cosa ricordare? quali assenze modellano ciò che vediamo? Nell’allestimento al The Bass, dominato da pareti rosse che accentuano teatralità e intensità, Vagabondia diventa uno spazio di confronto diretto, invitando il visitatore a osservare con maggiore consapevolezza e a interrogare i meccanismi che definiscono ciò che le istituzioni culturali mostrano e ciò che mantengono fuori dallo sguardo.
The Kaleidoscopic: Writing Histories Through The Collection
The Kaleidoscopic: Writing Histories Through the Collection parte dall’idea che la storia non sia mai un racconto unico e lineare, ma un intreccio di prospettive, omissioni e narrazioni che mutano nel tempo, soprattutto all’interno di una collezione museale dove opere provenienti da epoche e culture diverse convivono in una stessa cornice. L’esposizione mette in discussione la presunta neutralità dei musei, ricordando che ogni scelta espositiva è un atto interpretativo che riflette valori istituzionali e visioni culturali più ampie. In un momento in cui il passato viene continuamente riesaminato, la mostra invita a chiedersi quali storie vengono conservate e quali restano fuori dallo sguardo, riconoscendo il ruolo attivo dei musei nella costruzione delle narrazioni storiche.

Photo by Zaire Aranguren
Adottando la metafora del caleidoscopio, l’allestimento trasforma ogni incontro con le opere in una nuova possibilità di osservazione: come nel gioco di riflessi e rotazioni, significati e collegamenti si ricompongono a ogni sguardo, stimolando letture plurali e non definitive. Il museo diventa così un archivio vivo, uno spazio in cui la storia può essere riscritta e rinegoziata, invitando i visitatori a considerare come il nostro modo di interpretare il passato dipenda sempre dalla lente attraverso cui lo osserviamo e da come quei frammenti continuano a mutare mentre li torniamo a interrogare.
Faire Foyer: Sarah Crowner in Dialogue with Etel Adnan
Faire Foyer: Sarah Crowner in Dialogue with Etel Adnan costruisce un ambiente immersivo in cui pittura, scultura e architettura si intrecciano in un dialogo poetico e materico. Crowner, nota per il suo linguaggio astratto che attraversa discipline diverse, realizza una alcova semicircolare rivestita in moquette, un vero faire foyer, spazio di accoglienza che prepara lo sguardo e il corpo all’incontro con l’arte, incorniciando l’imponente murale ceramico di Etel Adnan, unico esempio nel suo genere presente negli Stati Uniti. All’interno di questo setting, l’artista dispone sculture in bronzo altamente riflettenti, ricavate da ciottoli marini ingranditi, che giocano con le tonalità del murale e con i movimenti del pubblico, creando un flusso continuo tra superficie, luce e colore. Accanto alle sculture, trovano posto le rare fotografie della costa californiana scattate da Adnan negli anni Sessanta, rivelando l’origine paesaggistica e sensoriale di molte sue composizioni astratte.

Sarah Crowner, Hot Light, Hard Light. Photographed by Charles Benton
Pur nella loro massa materica, i bronzi di Crowner emanano una sorprendente leggerezza visiva: le superfici imperfette rifrangono lo spazio circostante, invitando lo spettatore a esplorare relazioni mutevoli tra opere, ambiente e corpo. L’installazione amplifica così la ricerca dell’artista sul rapporto tra astrazione e architettura, ricordando le influenze di figure come Ellsworth Kelly, Sophie Taeuber-Arp e Lina Bo Bardi. In questo coro di rimandi, il murale di Adnan emerge come un campo cromatico vibrante, una presenza che dialoga con le forme lucenti dei “sassi” di bronzo e con la morbidezza tattile della moquette. L’interazione tra metallo, fibra, ceramica, colore e movimento genera un’esperienza multisensoriale che trasforma la galleria in uno spazio vivo, dove passato e presente dell’astrazione si incontrano. Crowner non si limita a esporre le opere, ma costruisce un contesto narrativo e fisico che invita il pubblico a vivere l’arte come un ambiente in cui ogni materiale, ogni superficie e ogni gesto contribuisce a ridefinire l’idea stessa di astrazione.
Jack Pierson: The Miami Years
Jack Pierson: The Miami Years racconta l’impronta profonda che Miami Beach ha lasciato sull’immaginario e sulla poetica di Jack Pierson, artista americano cresciuto nel New England negli anni Sessanta e noto per un lavoro che attraversa fotografia, scultura, pittura, installazione e pubblicazioni, esplorando con sensibilità temi universali come desiderio, memoria, perdita e transitorietà. Emerso negli anni Novanta accanto a figure come Nan Goldin e David Armstrong, Pierson ha documentato con sguardo intimo la cultura queer e bohemienne delle città in cui ha vissuto, ma è a Miami che trova un punto di svolta: il suo primo soggiorno nel 1984, durato sei mesi, diventa un laboratorio di sperimentazione personale e artistica, alimentato dall’energia di South Beach, dai suoi paesaggi luminosi e da una scena notturna vibrante, libera e accessibile. In una città in piena trasformazione, dove moda, arte e celebrità si mescolavano nelle strade, nei bar e negli hotel Art Déco (con presenze come Lauren Hutton, Rod Stewart, Bruce Weber e Nam June Paik) Pierson assorbe un’atmosfera elettrica che riaffiora nelle sue opere, intrise di atmosfere punk, riferimenti pubblicitari, oggetti trovati e segni del tempo.

Jack Pierson, ARRAY (MIAMI), 2025. Courtesy of the artist, Lisson Gallery, and Regen Projects.
L’esposizione include il monumentale ARRAY (MIAMI), una nuova commissione del The Bass: un collage di manifesti, poesie, cartoline e fotografie che compone un mosaico visivo delle emozioni e delle fughe interiori che hanno definito l’esperienza dell’artista in città. In questo intreccio di glamour e ombre, libertà e precarietà, segnata anche dalla generazione che visse l’impatto dell’AIDS, accanto a figure come Felix Gonzalez-Torres e Kiki Smith, la mostra mette in luce come Miami abbia contribuito a plasmare il linguaggio emotivo e visivo di Pierson. The Miami Years diventa così non solo un omaggio a una città magnetica, ma anche una riflessione sul ruolo che i luoghi possono avere nel modellare l’identità artistica e nel tessere le connessioni tra arte contemporanea, moda e cultura.
Lawrence Lek: NOX Pavilion
NOX Pavilion, la nuova installazione di Lawrence Lek al The Bass, immerge il pubblico in un futuro tanto immaginario quanto sorprendentemente familiare, dove l’intelligenza artificiale non è più semplice strumento ma protagonista dotata di volontà, memoria ed emozioni. Lek, artista londinese che da anni esplora mondi virtuali e scenari speculativi, costruisce qui un universo narrativo coerente e stratificato, centrato su NOX, un centro terapeutico per automobili senzienti gestito dalla gigantesca Farsight Corporation: un luogo in cui la cura è subordinata alla produttività e dove i veicoli, trattati come pazienti, vengono “aggiustati” più che ascoltati. L’installazione occupa due gallerie collegate e prende vita attraverso un film a tre canali dedicato a Enigma-76, un veicolo per consegne in crisi che affronta sedute guidate da Guanyin, un carebot ispirato alla dea buddhista della compassione. Nella sua voce digitale emergono contraddizioni, paure e desideri che parlano del conflitto tra programmazione e autodeterminazione, riflettendo una tensione sempre più presente anche nel nostro presente.

Lawrence Lek, NOX Pavilion, 2025. Courtesy of Sadie Coles HQ. Photography by Zaire Aranguren. Image courtesy of The Bass, Miami Beach.
Attorno al film, Lek costruisce un ecosistema di opere che ampliano questo mondo: un video muto con un crash test dummy “umanizzato”, portavoce aziendale che si rivolge allo spettatore come cliente; un videogioco che consente al pubblico di assumere il ruolo di terapeuta alle prime armi, alle prese con quote, budget e pressioni aziendali; e soprattutto il padiglione che dà il nome all’esposizione, una struttura in piastrelle grigie che funge da rifugio, monumento e rovina allo stesso tempo, presente sia fisicamente in galleria sia come elemento della città virtuale di NOX. La compresenza di architettura reale e digitale riduce la distanza tra fiction e realtà, rendendo evidente quanto mondi come quello immaginato da Lek non siano così lontani dal nostro. Muovendosi attraverso l’esposizione, il pubblico assume prospettive diverse – cliente, osservatore, terapeuta, abitante – e ogni ruolo aggiunge un tassello alla comprensione delle vite interiori delle macchine di Lek. L’artista, con il suo linguaggio visivo ipnotico e cinematografico, spinge a interrogarsi su cosa significhi valore, identità e libertà in un futuro in cui le linee tra umano e non umano diventano sempre più sfumate. NOX Pavilion riflette sistemi già esistenti: controllo aziendale, performance continua, lavoro che richiede produttività infinita, offrendo una metafora potente del nostro presente. In questo mondo complesso e sorprendentemente empatico, Lek suggerisce che comprendere le lotte delle macchine immaginate potrebbe aiutarci a riflettere sulle nostre e a immaginare futuri che vadano oltre i limiti imposti dalla logica puramente produttiva.
Cover photo Michael Snow, SSHTOORRTY, 2005. Collection of The Bass
